02 October 2020

Carbon neutrality: è tempo di lasciare un’impronta (ma non di CO2)

Rivoluzione industriale e inquinamento globale: un’associazione motivata e quasi involontaria, che rischia di trasformarsi in un alibi per non cambiare le sorti del progresso. Perché sì: si può fare innovazione nel rispetto – e non a discapito – dell’ecosistema.

Senza scadere in uno dei più classici luoghi comuni della storia moderna, bisogna ammetterlo: l’uomo ha modificato l’ambiente più di qualunque altro essere vivente, beneficiando dei tesori della sua straordinaria biodiversità.

Si potrebbe dire che l’abbia fatto inconsapevolmente, per il sol fatto di respirare e di emettere, quindi, anidride carbonica. Ma il discorso è un po’ più complesso della semplice “responsabilità” individuale.

Di mezzo ci sono state evoluzioni e conquiste dell’umanità che, per moltissimi versi, sarebbe assurdo rimpiangere. Dalla rivoluzione industriale in poi, passando per il boom economico e il dopoguerra, sono cambiati i processi produttivi e molti nuovi materiali sono diventati attori protagonisti dello sviluppo. Solo che, per disporne su larga scala, il pianeta è stato sfruttato oltre il limite consentito.

È giunto il momento di fermarsi? In un certo senso sì, ma forse la vera rivoluzione del nostro tempo sarebbe ritararsi completamente. Azzerare l’azzerabile, compensare l’inevitabile… e raccogliere i frutti del progresso che tanto è costato al nostro ecosistema, per restituirgli ciò che gli si è tolto.

Carbon footprint: individui e organizzazioni sono gli eco-attori del presente

Avete mai sentito parlare di Carbon Footprint? Letteralmente, quest’espressione ormai molto utilizzata significa “impronta di carbonio”.

Ma che cos’è nel concreto? Si tratta di una misura che esprime in CO2 equivalente il totale delle emissioni di gas a effetto serra (GHG) associate ad un prodotto, un’organizzazione o un servizio. In poche parole: dimmi quanto inquini e ti dirò che incidenza hai sul cambiamento climatico.

Per quantificare questo valore – e studiare quali misure correttive mettere in campo – occorre analizzare l’intero ciclo di vita (LCT, Life Cycle Thinking): del processo, dell’organizzazione, del prodotto o del servizio. Una volta terminato l’inventario delle proprie emissioni che, in molti casi, valicano i confini delle GMP (Good Manufacturing Practices) e del controllo qualità dell’azienda stessa (come l’energia importata, i trasporti, l’utilizzo dei prodotti, il loro smaltimento), bisogna decidere come intervenire per ridurre il proprio impatto sull’ecosistema.

Si cerca la cura al problema matematicamente individuato. Ma si potrebbe – e si può – fare ancora di più: scegliere di prevenire e abbassare la quota di emissioni generate lavorando in un’ottica di eco-design. Progettare selezionando le materie prime, studiando formulazioni green, pulite e biodegradabili, ottimizzando i processi e lavorando sul packaging, per esempio.

Il 2020 e il pianeta in pausa: diario di un monito da non ignorare

Quest’anno ancora in corso resterà nei libri di storia per tanti motivi ma, più di ogni cosa, rimarrà per sempre associato all’idea di uno stop non più rimandabile.

Raggiunto – e superato ampiamente – il carbon budget (vale a dire il tetto massimo di emissioni ammissibili e sostenibili dal pianeta Terra prima che il surriscaldamento globale superi il punto di non ritorno), il mondo correva con i freni rotti verso l’irreparabile. Finché, per cause di forza maggiore, è andato in stand by e ha atteso che il peggio passasse.

Le acque sono tornate cristalline, il cielo si è fatto vedere nuovamente terso, l’aria è tornata respirabile e gli animali hanno fatto delle piccole ricognizioni dove prima non osavano metter piede. In poche parole, la natura ha ripreso per qualche settimana il sopravvento.

Basterebbe un dato: tra il 1° gennaio e il 30 aprile 2020 c’è stato un calo delle emissioni di CO2 di origine fossile pari all’8,6%. Vuol dire che il mondo ha generato almeno 1 miliardo di tonnellate in meno di agenti nocivi rispetto allo stesso periodo del 2019.

Confortante, è vero, ma solo se foriero di un insegnamento: perché per far ripartire la macchina, oggi, non è più possibile commettere gli errori del passato.

Sola andata per il cambiamento: tra nuove abitudini green e un modello di sviluppo sostenibile

Lo stile di vita, inutile negarlo, è uno dei motori più efficaci della ripresa. Certe abitudini – come quelle riguardanti gli spostamenti casa/lavoro – sono cambiate per necessità, mentre molte altre iniziano pian piano ad essere riscritte.

Il livello di guardia si è finalmente alzato e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu (Agenda 2030) diventano sempre più stringenti per essere ignorati. A maggior ragione dalle organizzazioni e dalle imprese, responsabili della quota più significativa e impattante delle emissioni complessive.

Ognuno deve fare la sua parte, cominciando proprio dalle buone norme di eco-progettazione. L’approccio circolare di Oway, sin da tempi non sospetti, si sostanzia proprio di queste scelte concrete: a partire dall’utilizzo di materie prime a km 0 provenienti da agricoltura biologica e biodinamica fino alla scelta di packaging 100% riciclabili all’infinito, passando per l’eliminazione di tutti gli imballi superflui e l’adozione di processi produttivi virtuosi gestiti con il 100% di energia green.

Quel che è stato fatto, ci porta oggi in una dimensione 2.0 della sostenibilità: per vivere e produrre zerowaste, superando e coronando gli insegnamenti del plastic free. L’obiettivo non è solo riciclare ma, soprattutto, ridurre al minimo o eliminare completamente gli scarti quotidiani.

E, soprattutto, un occhio particolarmente sensibile nella valutazione del fine vita del prodotto. Perché possa rinascere o assumere differenti e inedite funzioni una volta consumato.

Noi siamo quel che produciamo… Ma anche quel che compensiamo!

Parliamoci chiaro: esiste una soglia fisiologica sotto la quale non è possibile ridurre la propria impronta di carbonionella vita di un individuo e, a maggior ragione, nei processi industriali.

Affidarsi al modello LCA (Life Cycle Assessment) intervenendo su ogni aspetto della filiera è un primo importante passo ma non può da solo risolvere il problema delle emissioni di CO2.

In Oway abbiamo perciò deciso di avvalerci del contributo di una società specializzata per analizzare i processi aziendali e calcolare il totale delle emissioni di gas a effetto serra (GHG) generate dal volume delle nostre attività. Una volta misurato l’impatto di ogni fase, abbiamo intrapreso azioni tese al miglioramento, all’azzeramento e alla compensazione di tale impronta, modificando alcuni processi e acquisendo nuove metodiche più sostenibili.

Fatto ciò, abbiamo scelto di compensare la percentuale di inquinamento non aggredibile promuovendo iniziative sostenibili nei Paesi in cui gli investimenti tecnologici e ambientali stentano a far breccia.

Il primo progetto è stato promosso in India: attraverso il riutilizzo dell’involucro esterno del riso – considerato uno scarto in un’ottica di economia lineare e ampiamente disponibile nella regione – permette di produrre vapore ed elettricità destinati al consumo locale. Il progetto coinvolge due impianti di cogenerazione da 1,0 MW e 0,6 MW situati rispettivamente a Bahadurgarh, Patiala, nello stato del Punjab, e a Mugalpur, Moradabad, nello stato dell'Uttar Pradesh. Il programma ha un’utilità di tipo ambientale, poiché da un prodotto di scarto di origine vegetale viene generata energia a impatto zero in termini di GHG, ma anche una valenza di tipo sociale.

Finalmente è ufficiale: Oway è un’azienda certificata Carbon Neutral!

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